Un articolo di Vittorio Marchis apparso su "Il Sole 24 Ore" del 23 ottobre 2011.
L'articolo di Claudio Giunta apparso sulla «Domenica» del Sole 24 Ore della scorsa settimana apre un dibattito quanto mai utile nello scenario di un'Italietta «di avvocaticchi con le loro plaquettes di poesie pubblicate in proprio».Il nostro Paese ha di certo bisogno di ripuntare tutto sulla cultura tecnico-scientifica perché senza di essa il Pil cala e anche l'occupazione, e nel giro di pochi anni ci troveremo in fondo al burrone senza possibilità di risalita alcuna.
Ma ... A questo punto sarebbe opportuno cambiare il punto di vista. Il liceo classico (e anche quello scientifico) di una volta non esiste più e di fronte a questo fatto non si può solo piangere perché al liceo è stata trasferito il ruolo che un tempo competeva alla scuola media. Compito dell'allungamento della vita e di conseguenza anche quello dell'adolescenza? Non saprei dirlo e lascerei la questione a sociologi e psicologi dell'età evolutiva, mentre sarebbe bene che si guardasse avanti e si procedesse, se pure in continuo dilemma con le nuove (?) riforme, ad adattare la scuola a quelle che i matematici chiamerebbero le nuove condizioni al contorno.
Il saggio di Martha Nussbaum con quel suo «sopravvalutare le discipline umanistiche» guarda a una realtà che non ha mai avuto una scuola secondaria come la nostra e in quel contesto, di high schools e di tecnical universities è indubbio che sia necessario avere più letterati e filosofi, ma come? Non di certo pensa la nostra saggista americana a proporre nuove scuole in cui si insegni il Greco antico e la filologia romanza, ma piuttosto che si riesca a innestare un nuovo umanesimo in una società che altrimenti si impoverisce di idee.
A questo punto l'invito che mi viene naturale di proporre, non è rivolto alle facoltà umanistiche, che per loro natura dovrebbero mantenersi (come negli Stati Uniti) destinate a una minima parte della popolazione studentesca, bensì a quelle facoltà tecnico-scientifiche, dall'ingegneria alla fisica, dalla biologia alla chimica e alla matematica, perché escano dalla loro nicchia di pretesa autoreferenziale specializzazione e si confrontino con «l'altro e l'altrove».
Da molti anni al Politecnico di Torino si è iniziata l'avventura di proporre ai giovani che affrontano gli studi di ingegneria anche un "pacchetto" di discipline afferenti alle aree delle scienze dell'uomo e della società. Non perché i futuri tecnici possano diventare storici o filosofi, ma perché imparino a guardare al di fuori dei loro saperi professionali e abbiano la capacità di confrontarsi con le realtà che così rapidamente cambiano nella nostra società.
In questo modo, e l'invito dovrebbe essere recepito anche da molti altri atenei, il fascino delle scienze dell'uomo potrebbe contaminare le tecniche che non solo diventerebbero più "umane" ma anche più allettanti per i giovani che nei licei non hanno avuto modo di confrontarsi con "la cultura", quella che a fianco delle leggi del moto trovava i versi di Catullo o le crisi del nostro Risorgimento.
Non sarà una strada facile anche perché la mia esperienza ha dovuto, e deve quotidianamente, fare i conti con colleghi che di fronte a cedere qualche percento delle loro risorse per fare luogo a corsi come Filosofia della scienza o Sociologia delle comunicazioni di massa, inorriditi affermano convinti che solo gli ingegneri (come loro) sono in grado di presentare correttamente questi saperi ai propri allievi.
E così se da un lato le facoltà umanistiche ammaliano migliaia di giovani senza dare loro la speranza di una professione utile a loro e soprattutto alla società, dall'altra le facoltà tecnico-scientifiche pensano di aumentare la loro credibilità chiudendosi in rigorosi spazi angusti e privi di contatti con il mondo esterno.
Perché non pensano che proprio quei modelli che vorrebbero imitare al di là dell'Atlantico, hanno capito che nei Technology Institutes devono trovare posto e uguale dignità culturale, anche se naturalmente nei giusti limiti, ingegneri e fisici, ma anche storici e filosofi?
Il saggio di Martha Nussbaum con quel suo «sopravvalutare le discipline umanistiche» guarda a una realtà che non ha mai avuto una scuola secondaria come la nostra e in quel contesto, di high schools e di tecnical universities è indubbio che sia necessario avere più letterati e filosofi, ma come? Non di certo pensa la nostra saggista americana a proporre nuove scuole in cui si insegni il Greco antico e la filologia romanza, ma piuttosto che si riesca a innestare un nuovo umanesimo in una società che altrimenti si impoverisce di idee.
A questo punto l'invito che mi viene naturale di proporre, non è rivolto alle facoltà umanistiche, che per loro natura dovrebbero mantenersi (come negli Stati Uniti) destinate a una minima parte della popolazione studentesca, bensì a quelle facoltà tecnico-scientifiche, dall'ingegneria alla fisica, dalla biologia alla chimica e alla matematica, perché escano dalla loro nicchia di pretesa autoreferenziale specializzazione e si confrontino con «l'altro e l'altrove».
Da molti anni al Politecnico di Torino si è iniziata l'avventura di proporre ai giovani che affrontano gli studi di ingegneria anche un "pacchetto" di discipline afferenti alle aree delle scienze dell'uomo e della società. Non perché i futuri tecnici possano diventare storici o filosofi, ma perché imparino a guardare al di fuori dei loro saperi professionali e abbiano la capacità di confrontarsi con le realtà che così rapidamente cambiano nella nostra società.
In questo modo, e l'invito dovrebbe essere recepito anche da molti altri atenei, il fascino delle scienze dell'uomo potrebbe contaminare le tecniche che non solo diventerebbero più "umane" ma anche più allettanti per i giovani che nei licei non hanno avuto modo di confrontarsi con "la cultura", quella che a fianco delle leggi del moto trovava i versi di Catullo o le crisi del nostro Risorgimento.
Non sarà una strada facile anche perché la mia esperienza ha dovuto, e deve quotidianamente, fare i conti con colleghi che di fronte a cedere qualche percento delle loro risorse per fare luogo a corsi come Filosofia della scienza o Sociologia delle comunicazioni di massa, inorriditi affermano convinti che solo gli ingegneri (come loro) sono in grado di presentare correttamente questi saperi ai propri allievi.
E così se da un lato le facoltà umanistiche ammaliano migliaia di giovani senza dare loro la speranza di una professione utile a loro e soprattutto alla società, dall'altra le facoltà tecnico-scientifiche pensano di aumentare la loro credibilità chiudendosi in rigorosi spazi angusti e privi di contatti con il mondo esterno.
Perché non pensano che proprio quei modelli che vorrebbero imitare al di là dell'Atlantico, hanno capito che nei Technology Institutes devono trovare posto e uguale dignità culturale, anche se naturalmente nei giusti limiti, ingegneri e fisici, ma anche storici e filosofi?
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