La conferenza del Professor Kenneth Keniston, del Massachusetts Institute of Technology, di cui è qui riportata la traduzione in italiano, è stata tenuta il 17 Ottobre 1996 al Politecnico di Torino, nel quadro dell’attività dell’ Istituto di Studi Superiori in Scienze Umane (Politecnico di Torino), e con la collaborazione dell’I.S.I., Institute for Scientific Interchange.
Algoritmo : "Qualsiasi metodo speciale per risolvere un certo tipo di problema"
Sono onorato dell’invito che mi è stato rivolto di presentare una relazione sull’argomento delle discipline umanistiche e delle scienze, e del loro rapporto con la formazione degli ingegneri. Il mondo intero ammira gli straordinari risultati raggiunti negli ultimi decenni nell’Italia del Nord, risultati che trovano un loro centro importante in questa città, e in questa famosa scuola di ingegneria. E’ per me un grande onore che mi sia stato chiesto di partecipare alla vostra discussione su come sia possibile adattare i programmi di formazione alle condizioni moderne.
Il vostro invito tuttavia mi mette anche a disagio, perché non conosco a fondo la formazione degli ingegneri in Italia, e quindi non posso fare commenti specifici sulla vostra situazione. Avendo studiato le scuole di ingegneria negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, sono certo che anche in Italia, come in ogni altro Paese, la cultura nazionale e le istituzioni locali possano - e debbano - determinare gran parte di quanto avviene in queste scuole. Desidero quindi farvi presente fin d’ora che i miei commenti si baseranno prevalentemente sulla mia esperienza in altri Paesi, e potrebbero non essere del tutto applicabili alla situazione a Torino e in Italia.
La crisi della formazione degli ingegneri
Intendo parlare in termini molto generali e sostenere che in America e, in una certa misura, in Francia e in Gran Bretagna, siamo di fronte a una crisi dell’ingegneria e della formazione degli ingegneri. Questa crisi risulta evidente nelle scuole di ingegneria attraverso i dubbi espressi sui curricula, attraverso la constatazione che gli ingegneri non occupano posizioni abbastanza importanti nel mondo industriale e nella società, attraverso i timori che il cambiamento possa significare la distruzione delle tradizionali qualità positive dell’ingegneria. In Francia, scuole come l’Ecole Polytechnique avevano un tempo il primato non solo dell’innovazione tecnologica, ma forse, in misura ancora maggiore, dei settori industriali pubblici e privati. Oggi devono lasciare il posto alla Scuola nazionale di amministrazione (ENA), e alle grandes écoles di management, in particolare l’HEC e l’ESSEC. In questo momento i funzionari dell’Ecole Polytechnique stanno esplicitamente esplorando nuove vie per ridefinire la funzione delle scuole di ingegneria, in modo da riaffermare e allargare la loro missione e la loro sfera di influenza.
In America, e specialmente in un istituto come il MIT, questi dubbi sui piani di studi sono molto diffusi. Da un lato il MIT, rispetto a qualsiasi università degli Stati Uniti, attira probabilmente il gruppo di studenti più scientificamente dotati. D’altro lato si rileva che, anche in un’era in cui l’alta tecnologia diventa sempre più un elemento centrale, la leadership dell’industria americana si trova non tanto nelle mani dei laureati del MIT o di altre persone con formazione tecnica, quanto piuttosto in quelle di esperti di finanza e avvocati - laureati della Harvard Business School e della Stanford Law School. I laureati del MIT, se mai raggiungono posizioni manageriali, spesso arrivano al massimo alla carica di vice presidente tecnico e non a quella di leader dell’impresa.
Sorge allora inevitabilmente il dubbio se o in quale misura la formazione del MIT contribuisca al "fallimento" dei suoi laureati nel raggiungere le più alte posizioni di leadership.
Un altro sintomo dei dubbi verso la formazione degli ingegneri è costituito dalla discussione costante ma inconcludente sulla riforma dei piani di studi, che viene oggi portata avanti nelle scuole di ingegneria americane. Vi sono innumerevoli proposte e controproposte di possibili riforme. Queste proposte si basano di solito su due timori. Il primo è quello che, data la vera e propria esplosione delle conoscenze, l’attuale piano di cinque anni sia troppo breve per consentire agli studenti di raggiungere le frontiere del sapere. Il secondo è il timore che vi sia qualcosa nel contenuto della formazione che risulti negativo (o non abbastanza positivo) agli effetti della preparazione intellettuale degli studenti per le posizioni di leadership nei settori industriali, sociali, politici e forse persino intellettuali.
Dietro questi timori vi sono i grandi cambiamenti storici che hanno influenzato l’opinione pubblica nei confronti dell’ingegneria, della formazione degli ingegneri e in realtà della moderna tecnologia nel suo insieme. Di tali cambiamenti, quello più critico storicamente è la consapevolezza crescente e ormai universale del fatto che le innovazioni tecnologiche possono avere - e spesso hanno - effetti negativi. A partire da Hiroshima, e con sempre maggior forza da allora, i critici sia all’interno che fuori della comunità scientifica e tecnica si sono resi conto del fatto che, per la prima volta, l’umanità possiede la capacità tecnologica di cambiare e perfino distruggere il mondo intero. L’elenco degli attuali problemi e rischi è lungo e ben noto : guerra nucleare, inverno nucleare, piogge acide, riduzione della fascia di ozono, distruzione di specie viventi, sostanze chimiche tossiche, impoverimento della Terra, inquinamento dell’aria, avvelenamento delle acque, proliferazione di rifiuti pericolosi, riscaldamento globale e via dicendo. Tutti questi rischi sono attribuiti agli effetti perversi della continua crescita delle capacità umane, resa possibile dalle tecnologie moderne.
Questi timori, ampiamente diffusi in America nella comunità intellettuale, nell’opinione pubblica e fra i politici, hanno contribuito a minare in questo Paese la visione ottocentesca dell’ingegnere come figura "eroica" che conquistava lo spazio e soggiogava la natura.
E’ chiaro che da Hiroshima a Chernobyl vi è stato un marcato declino dell’entusiasmo pubblico per la tecnologia, e quindi per gli ingegneri che sono la personificazione delle sue più importanti caratteristiche. Non intendo chiaramente affermare che la maggior parte degli studenti e dei docenti in istituti come il Politecnico, il MIT, il Technion israeliano, la Technische Hochschule, l’Ecole Polytechnique, o l’Imperial College siano essi stessi pieni di dubbi e di ansie. Voglio però sottolineare che il sostegno della pubblica opinione verso l’ingegneria - l’immagine culturale dell’ingegneria - è cambiato per la consapevolezza del fatto che le potenti tecnologie moderne quasi sempre finiscono col produrre, oltre a conseguenze positive e desiderate, effetti non previsti e non auspicabili.
In ultima analisi, tuttavia, il fatto che le tecnologie possiedano un loro lato "oscuro" costituisce, per gli ingegneri creativi, un problema pratico piuttosto che intellettuale o concettuale. Come si è espresso un presidente del MIT, "La risposta alle tecnologie dannose non è l’abolizione delle tecnologie, ma la loro sostituzione con tecnologie valide". Ad esempio, se gli attuali metodi di produzione dell’energia contribuiscono al riscaldamento globale, dobbiamo scoprire, attraverso la scienza e la tecnologia, tecniche migliori che non contribuiscano (o non contribuiscano in misura così rilevante) a tale fenomeno. Non si tratta quindi di un problema filosofico, ma di un interessante problema tecnico, che dovrebbe essere risolto, con l’applicazione di un tenace lavoro, e impegnando risorse adeguate, grazie all’impegno di ingegneri creativi armati di strumenti quali la scienza, la matematica e l’analisi costi-benefici.
Per quanto importante sia il problema del declino della fiducia del pubblico nella tecnologia, sono convinto che vi sia un secondo problema al centro della crisi nel settore dell’ingegneria, un problema più profondo, più arduo, più concettuale - in realtà, un problema filosofico. Esso colpisce le ipotesi intellettuali fondamentali su cui si basa la moderna ingegneria, e costituisce una minaccia per le stesse basi concettuali su cui si fondava originariamente questa disciplina immensamente creativa e trasformativa.
Definirò questo secondo problema come l’erosione della fiducia nell’algoritmo di ingegneria -nel paradigma - cioè, nel metodo di soluzione dei problemi che si trova nel cuore stesso dell’ingegneria e quindi della tecnologia moderna. Questa crisi dell’algoritmo di ingegneria - decisamente negata da alcuni, ignorata dai più, e affrontata da pochi - deriva da una crisi concettuale fondamentale dell’ingegneria.
Un richiamo storico
Per spiegare questa crisi, vi prego di consentirmi un breve richiamo storico alle vicende dell’ingegneria in America, al fine di sottolineare l’originalità e la fecondità dell’algoritmo che sta alla base della moderna ingegneria.
E’ ora un fatto ampiamente accettato che quella che gli storici definiscono "prima rivoluzione industriale"- la rivoluzione nella produzione di beni che ebbe inizio nel 17° e 18° secolo, e che decollò nel 19° con uno straordinario sviluppo delle industrie tessili, dei trasporti, metallurgiche e di altri settori - non fu la creazione di un’ingegneria basata sulla scienza, ma piuttosto il frutto del lavoro di dilettanti intuitivi, di artigiani dotati e di arruffoni pieni di inventiva. E’ indubbio che il concomitante sviluppo della scienza, e specialmente il razionalismo scientifico e l’idea di progresso crearono un clima fertile in cui poté manifestarsi la prima rivoluzione industriale. Ma i primi canali, le prime fabbriche, ferrovie, acciaierie, i filatoi e i telai a motore non furono il risultato dell’applicazione sistematica dei principi scientifici da parte degli ingegneri. Tutto questo fu piuttosto dovuto all’inventiva e all’immaginazione di persone la cui formazione scientifica era generalmente approssimativa. Come spiega Elting Morison, storico della tecnologia, nel suo resoconto sui primi canali americani, questi non furono costruiti da persone simili ai moderni ingegneri idraulici, formati su basi scientifiche, ma piuttosto da dilettanti entusiasti, artigiani ingegnosi e imprenditori tenaci. La maggior parte dei canali presentava grosse falle ; un canale del 19° secolo era stato tracciato così malamente che, nel momento in cui le due estremità in via di costruzione finalmente si incontrarono, una si trovava a un livello superiore di due metri rispetto all’altra !
La scienza di base, se pur esisteva, non stava nelle menti degli ingegneri, ma altrove - principalmente nelle accademie urbane e in poche università, ed era più che altro un passatempo per aristocratici e persone abbienti.
Fu solo verso la fine del 19° secolo, quando la spinta della prima rivoluzione industriale era diventata irresistibile, che si fece gradatamente strada l’idea della posizione centrale della moderna ingegneria e venne avviata la seconda rivoluzione industriale. Negli anni settanta, ottanta e novanta del secolo scorso, gli industriali che cercavano prodotti nuovi e metodi più economici di produzione di quelli tradizionali, cominciarono a rendersi conto che le nuove scienze avrebbero potuto essere usate - se applicate direttamente - per risolvere problemi tecnologici, per inventare nuovi prodotti, per migliorare quelli già esistenti, per moltiplicare i materiali, e per ridurre i costi di produzione. Cominciò così ad apparire, dapprima nell’industria tedesca delle materie chimiche e dei coloranti, nella nascente industria elettrica britannica, in Italia e negli Stati Uniti, nei settori delle comunicazioni e della metallurgia, una nuova strana figura professionale, il precursore del moderno ingegnere.
Questo nuovo ingegnere, nonostante fosse istruito nelle discipline scientifiche della sua epoca, non condivideva l’obiettivo principale dello scienziato, quello cioè di ampliare la conoscenza del mondo naturale. Egli tendeva piuttosto ad usare la scienza per creare nuovi prodotti e processi. Non lavorava per l’università, ma per clienti privati, e successivamente per le aziende industriali ; i compiti che svolgeva non dipendevano dalla sua curiosità, ma piuttosto dalle esigenze pratiche dei datori di lavoro. La parola "ingegnere", un tempo usata prevalentemente per indicare meccanici dotati, guidatori di locomotive a vapore e soldati istruiti a West Point o all’Ecole Polytechnique, cominciò ad acquisire un nuovo significato.
Sempre più erano considerati "ingegneri" i membri di una nuova professione - coloro che avevano studiato i principi matematici e scientifici fondamentali essenziali per le scienze applicate e pratiche, uomini (si trattava in effetti di una professione esclusivamente maschile) che si specializzavano nei servizi pubblici, e il cui lavoro come costruttori di ponti e strade, metallurgisti, ingegneri chimici, ingegneri elettrici o meccanici si basava sulla conoscenza delle nozioni scientifiche più precise e più utili esistenti in quel momento. Con la creazione di questa nuova professione, e sulla base dell’idea radicale che ne aveva determinato la comparsa, la spinta della prima rivoluzione industriale diede impulso alla seconda, il cui impeto ha guidato la trasformazione del mondo conosciuto fino ai nostri giorni.
Alle origini della creazione del nuovo ingegnere professionista vi era un’idea - un’idea di immensa importanza, semplicità essenziale e produttività senza pari. Si trattava di un’idea la cui forza era stata prevista dagli ottimisti della scienza già da molti secoli, ma che non era mai prima stata applicata su larga scala. Era l’idea che i principi fondamentali della scienza, che erano rimasti fino ad allora una branca della filosofia che mirava prevalentemente a una migliore comprensione del mondo naturale in quanto tale, potessero essere applicati sistematicamente e deliberatamente per trasformare il mondo naturale al fine di raggiungere obiettivi umani e industriali.
Quest’idea assunse forma pratica solo gradualmente, e procedette di pari passo con gli stupefacenti progressi della scienza nei secoli 19° e 20°. All’inizio, i piani di studi delle scuole di ingegneria nuove o riorganizzate avevano una parte importante di apprendimento pratico - imitazione dei metodi migliori applicati da coloro che avevano operato prima. Tuttavia la scienza e la matematica cominciarono a svolgere un ruolo nuovo e importante, e nel 20° secolo, specialmente nel periodo fra le due guerre mondiali, finirono per diventare l’elemento centrale nella formazione degli ingegneri, le "conoscenze fondamentali" sulle quali si costruiva l’intero processo educativo. Fu allora che, in istituti come il MIT, fu creata una importante e autonoma Scuola delle Scienze, per fornire una fertile base culturale, il nucleo fondamentale di una istituzione dedicata alla formazione degli ingegneri. Nel 20° secolo infatti l’interdipendenza tra scienza e tecnologia divenne sempre più evidente : si formò un nuovo rapporto sinergico fra l’ingegnere che creava nuovi strumenti di misura e di ricerca, e lo scienziato le cui scoperte alimentavano i successivi progressi dell’ingegneria.
Questa trasformazione dell’ingegneria e, come risultato diretto, del mondo intero, si può descrivere in molti modi. E’ stato il prodotto di potenti forze industriali, intellettuali, economiche e politiche, che lavoravano in ampia concertazione ; ha creato nuove professioni e grandi redistribuzioni di potere economico, intellettuale e politico ; ha suscitato nuovi modi di interpretare il mondo. Ha formato un nuovo tipo umano, un nuovo eroe culturale, l’imprenditore-ingegnere, pionieristico e innovatore, le cui opere traversavano i continenti, sfidavano il tempo e lo spazio, e mettevano alla portata di tutti i lussi delle classi abbienti.
Ora vorrei tuttavia esaminare le basi intellettuali di questa trasformazione. Come ho già osservato, l’idea che la scienza possa aiutare l’uomo a padroneggiare la natura ai propri fini è di gran lunga antecedente alla rivoluzione dell’ingegneria. Questa è stata però necessaria per dimostrare che si trattava di un’idea attuabile, e per creare le istituzioni dove questo potesse avvenire attraverso lo studio e la pratica.
L’algoritmo dell’ingegneria
L’idea fondamentale che sta alla base della rivoluzione dell’ingegneria è quella che il mondo esterno possa essere definito come una serie di problemi, ognuno dei quali può essere risolto grazie all’applicazione di teoremi scientifici e di principi matematici. Attorno a questo primo principio si raggruppa una serie di idee che ne formano il corollario.
Il primo principio implica una divisione metafisica del mondo in due regni. Il primo costituisce il regno dei "problemi" che possono essere "risolti". Naturalmente tutti noi sappiamo che nella vita umana non ogni difficoltà si può definire "problema" in questi termini. Vi è quindi un secondo regno - definito in vari modi come "il resto della vita", i "valori" o la "società" - che non può essere definito secondo i parametri dei "problemi" e che quindi non ha rilevanza per l’ingegnere in quanto tale.
Per quanto riguarda i "problemi" degni del lavoro dell’ingegnere, si tratta in generale di questioni di natura complessa. Ciò significa che devono essere suddivisi - o analizzati - suddividendoli in componenti e problemi parziali più semplici, ognuno dei quali può essere risolto separatamente applicando principi scientifici e idee matematiche. Risolvendo correttamente tutti i problemi parziali e integrando quindi fra loro le soluzioni parziali, l’ingegnere arriva alla soluzione di problemi più vasti e complessi.
L’applicazione di principi scientifici appropriati a un problema reale porta a una risposta corretta. Si possono quindi classificare le soluzioni come giuste o sbagliate. Le soluzioni sbagliate possono essere dovute a una varietà di errori : ad esempio, l’inserimento di valori errati per le variabili di un’equazione ; l’insufficiente conoscenza delle formule scientifiche richieste, la trascuratezza nei calcoli, l’applicazione del principio scientifico sbagliato al problema. Per imparare a evitare tali errori si richiede molta pratica, grande attenzione e precisione estrema. Risulta particolarmente difficile apprendere quale principio scientifico applicare alla soluzione di un problema.
Poiché il linguaggio della scienza è prevalentemente numerico, i veri problemi devono poter essere tradotti e risolti in termini quantitativi. La formazione degli ingegneri è necessariamente basata sulla matematica. Le questioni o le difficoltà che non possono essere quantificate non sono quindi per definizione problemi reali. Le qualità che non possono essere misurate (ad esempio bellezza, giustizia sociale, grazia, pace, eleganza) devono essere escluse dai calcoli di ingegneria, anche se per altri motivi potrebbe essere auspicabile prenderle in considerazione.
Non tutti possono diventare buoni ingegneri. Le qualità umane necessarie a questo fine comprendono capacità matematiche e scientifiche, capacità di suddividere problemi ampi e complessi in una serie di problemi piccoli e semplici, capacità e interesse per la precisione, e capacità di identificare i principi scientifici che devono essere correttamente applicati a ogni problema.
Quando tuttavia esistono queste capacità intrinseche, l’ingegneria può essere insegnata. Ciò avviene in primo luogo insegnando agli studenti i fondamentali principi matematici e scientifici, e successivamente addestrandoli nelle specifiche tecniche di problem-solving di un particolare settore dell’ingegneria. Il compito più difficile nella formazione ingegneristica è quello di insegnare agli studenti come scegliere il corretto principio scientifico da applicare a qualsiasi problema particolare. A questo fine occorre una continua e costante applicazione pratica. Si propone allo studente un problema - di tipo semplice, per iniziare - e gli si chiede di scegliere fra tutti i principi scientifici, proprio quello necessario per arrivare alla giusta soluzione. Questo metodo viene definito, in inglese, metodo dei problem-sets, ed è il mezzo di istruzione maggiormente usato nella formazione ingegneristica degli Stati Uniti.
Infine, tutti concordano sul fatto che gli ingegneri, nel corso della propria vita, si troveranno ad affrontare situazioni di grande importanza, ma che non si possono considerare "problemi" secondo il concetto che ho esposto. Tuttavia gli studi formali di ingegneria possono in realtà fare ben poco per preparare gli studenti ad affrontare tali situazioni, a parte forse avvisarli del fatto che esse esistono. Fra quelli più spesso citati nelle scuole di ingegneria vi sono i cosiddetti "vincoli sociali", e cioè fattori psicologici, politici, etico-ambientali, economici, culturali, organizzativi e altri che possono "vincolare" l’ingegnere - limitando la sua capacità ad applicare la soluzione (giusta) che egli riesce a trovare grazie alla formazione ricevuta. Da questo deriva anche la convinzione che, nell’ipotetico caso di un mondo più perfetto, dove non esistessero questi vincoli, si potrebbero applicare di preferenza le soluzioni ingegneristiche. Si suppone però che gli ingegneri in quanto tali non possiedano alcuna attitudine o capacità di affrontare questi "vincoli" e che essi debbano, per quanto possibile, starne lontani.
L’algoritmo ingegneristico - quest’idea di applicare deliberatamente la scienza per risolvere determinati problemi pratici, e la metodologia correlata che insegna all’ingegnere come farlo - si è dimostrato essere una delle idee più rivoluzionarie e creative mai espresse. Questo principio, inserito nella pedagogia delle scuole di ingegneria e nella pratica stessa dell’ingegneria moderna, è stato la forza trainante che ha consentito una continua crescita del dominio dell’uomo sulla natura, che ha portato in questo secolo a trasformare la vita sul pianeta in misura molto maggiore di quanto mai sia accaduto in tutta la precedente storia dell’umanità.
Il buon tempo andato
Descrivendo l’algoritmo ingegneristico ho detto che questo definisce come irrilevanti, e quindi non compresi nella formazione degli ingegneri, tutti gli altri problemi, dilemmi e situazioni che non sono "problemi" secondo la definizione classica. Questa è naturalmente un’ipotesi deliberatamente riduttiva, che può apparire irragionevole a tutti coloro che operano principalmente in un mondo complesso e turbolento, pervaso da sentimenti umani ambigui, confusione organizzativa, conflitti politici, contraddizioni assurde e dilemmi non risolti. Si deve però ricordare che, fino all’incirca all’ultima generazione, l’algoritmo costituiva un’utile semplificazione, grazie alla quale gli ingegneri riuscivano, con un po’ di tensione e di autoillusione, a perseguire la loro vocazione in modo creativo. Poiché gli ingegneri hanno tuttavia sempre dovuto tenere conto dell’aspetto che io ho definito "il resto del mondo", può essere utile vedere come ciò sia avvenuto in passato.
Per prima cosa, si deve ricordare che all’inizio, nel firmamento sociale, gli ingegneri godevano di una posizione molto privilegiata, e in certi momenti perfino eroica. In America, gli ingegneri erano coloro che progettavano i canali e disegnavano le ferrovie che unirono il continente, che costruivano ponti, centrali, acciaierie e stabilimenti, che successivamente progettarono automobili, grattacieli ed aerei, e che, attraverso la chimica moderna e la conquista della natura, riuscirono a diffondere un miglior tenore di vita. Anche se in America gli ingegneri non hanno mai raggiunto una posizione sociale così elevata come in Francia, per non parlare dell’Unione Sovietica (dove, fino all’avvento di Gorbaciov, essi costituivano oltre il 90% del Politburo), la loro posizione nell’immaginario popolare e nella pubblica stima era sicura. Fino a tempi recenti, solo pochi intellettuali dissidenti - Carlisle in Inghilterra, Thoreau in America, alcuni poeti romantici nell’Europa continentale - hanno osato mettere in dubbio il reale valore della Tecnologia o dei suoi adepti, gli ingegneri.
Il fatto di occupare una posizione "eroica" nell’immaginario collettivo aiuta chiaramente a convivere con le contraddizioni della professione. Ancora più importante era tuttavia il fatto che, nella loro attività pratica, gli ingegneri erano generalmente in grado di ignorare semplicemente "il resto del mondo". La necessità di affrontare dei "vincoli", per quanto onnipresenti questi fossero, era considerato un compito da affidare ad altri. Banchieri, speculatori e capitalisti trovavano le necessarie risorse finanziarie. Gli esperti di marketing lavoravano per vendere il prodotto. I pubblicitari e gli addetti alle pubbliche relazioni si occupavano della pubblica opinione, che in ogni caso era ampiamente positiva. Se vi era inquinamento a valle, questo era comunque il prezzo da pagare per il Progresso, e i politici locali, sempre sensibili alle esigenze dell’occupazione, difficilmente avrebbero messo in gioco i posti di lavoro con norme che potessero danneggiare la produzione. E per quanto riguarda il problema attuale dei necessari compromessi fra fattori che non possono essere misurati, raramente l’ingegnere doveva confrontarsi direttamente con esso. Il suo compito era quello di progettare qualcosa che funzionasse e che si potesse riparare in caso di guasto. E in ogni caso, poche e semplici regole empiriche erano in generale sufficienti per affrontare ciò che oggi richiederebbe una complessa analisi costi-benefici : gli ingegneri cercavano di non usare materiali costosi ; cercavano di progettare oggetti che durassero per un periodo di tempo ragionevole.
E ancora, un secolo fa gran parte degli ingegneri americani erano professionisti indipendenti, o lavoravano per piccole imprese. Di norma, i loro incarichi potevano essere assolti con un minimo di consulenza e assistenza da parte di altri ; o, se vi erano altre persone coinvolte, queste erano o clienti o impiegati che traducevano in specifiche e disegni particolareggiati i progetti dell’ingegnere o si procuravano le misure che gli erano necessarie. Certamente, un numero piccolo ma crescente di ingegneri cominciò a essere assunto da grandi aziende in quelle che dovevano poi diventare le direzioni Ricerca e Sviluppo. Tuttavia all’inizio si trattava di pochi casi e di esperienze isolate. Era quindi più facile continuare a cullarsi nell’illusione di non dover tenere conto dei "fattori sociali".
Da due o tre generazioni, però, e con una sempre maggiore rapidità, la vita degli ingegneri ha cominciato a cambiare. In primo luogo, come ho già ricordato, in questi ultimi decenni si è deteriorata l’immagine pubblica degli ingegneri e della "Tecnologia". Considerato un tempo un creativo conquistador della Natura, oggi l’ingegnere è più spesso visto come culturalmente incolto. E inoltre, ciò che è ancora più importante, l’innovazione tecnologica, un tempo definita semplicemente come il mezzo verso una vita migliore, è ora considerata come una delle principali cause di un degrado ambientale così esteso che, secondo alcuni, preannuncia addirittura la "morte della Natura". Anche in un istituto come il MIT, dove esiste tuttora un grande entusiasmo tecnologico, si avvertono questi cambiamenti.
Al tempo stesso l’attività quotidiana degli ingegneri è diventata più difficile, in quanto i prodotti che essi progettano sono sempre più complessi. Un semplice ponte diventa una struttura inserita in un sistema di autostrade ; la macchina fotografica assomma in sé una miriade di funzioni automatiche, come l’autofocalizzazione, la riduzione dell’effetto per cui gli occhi virano al rosso, l’abbassamento al minimo delle vibrazioni, ecc., un apparecchio con quattro chip di computer all’interno; la dinamo diventa un componente di un reattore nucleare collegato a una rete elettrica internazionale ; l’aereo dei fratelli Wright, poco più complesso che una bicicletta, diventa il Boeing 747, con un milione di parti interconnesse. Di conseguenza, l’ingegnere solista che progettava o inventava un singolo prodotto dall’inizio alla fine è diventato ormai una rarità ; ora è sostituito dal team coordinato e interattivo di specialisti in ingegneria, che lavorano sul progetto complesso di un componente che si inserisce in un sistema socio-tecnico complesso. La "società", che un tempo era qualcosa che stava là fuori, ora è entrata nel posto di lavoro ; anzi, la società stessa è il posto di lavoro.
Come conseguenza di tutto ciò si è verificato un altro cambiamento : a mano a mano che i sistemi tecnologici diventano più complessi e i loro componenti più strettamente correlati, il problema della ricerca dell’equilibrio fra fattori incommensurabili, che era un tempo marginale per l’ingegneria, si sposta al centro. Nella progettazione di un aeroplano moderno, il progettista deve prendere in considerazione la sicurezza rispetto alla velocità rispetto all’affidabilità rispetto ai costi rispetto alla capacità, con un occhio anche alla riproducibilità, all’accettazione da parte del mercato e ai piani dei concorrenti esteri. Certamente ognuno di questi fattori, di per sé, potrebbe essere trasformato in un "problema" risolvibile con un algoritmo ingegneristico. Tuttavia nulla nell’algoritmo consente all’ingegnere di trovare un equilibrio tra fattori diversi irrinunciabili, e che non possono essere rapportati fra loro secondo un unico parametro. Perfino l’analisi costi-rischi-benefici, che costituisce un tentativo di estendere l’algoritmo ingegneristico a situazioni decisionali complesse, quantizzando variabili qualitative e finanziarie, finisce con il collassare quando si trova a dover massimizzare simultaneamente sia mele che arance.
Al tempo stesso, tutti quei "vincoli" che l’ingegnere poteva un tempo tranquillamente trascurare, sono ora entrati a far parte della sua attività. I problemi ambientali sono esempi classici di ciò che gli economisti definiscono "fattori esterni", un elemento che gli ingegneri del passato raramente dovevano prendere in considerazione. Quando tuttavia la sicurezza e i livelli massimi delle emissioni stabiliti a Roma o Washington vengono imposti ai produttori di vetture a Torino o Detroit, sicurezza e inquinamento diventano i "problemi" dell’ingegnere automobilistico. Trovare la migliore ubicazione di una centrale elettrica era un tempo compito di capitalisti, agenti immobiliari e politici, e in ogni caso le prime centrali elettriche erano ragionevolmente ubicate nel centro delle grandi città, vicino a coloro che avevano bisogno dell’energia. Oggi, tuttavia, per l’ingegnere nucleare, la scelta del sito fa parte dei problemi che lui stesso deve risolvere. Ad esempio, per alcuni aspetti, il centro di Genova o di Manhattan sarebbero siti eccellenti per installare reattori nucleari, con un’ampia disponibilità di acqua per il raffreddamento, buone strutture di trasporto e vicinanza agli utenti. Sarebbe tuttavia assurdo considerare oggi i potenziali rischi o impatti ambientali dei reattori nucleari unicamente come "vincoli" che per definizione impediscono agli ingegneri di fare quello che è giusto. Oggi, ciò che veniva un tempo considerato come fattore esterno è diventato interno, e ciò che prima era visto come "vincolo" è diventato parte integrante del design ingegneristico. Tuttavia, precisamente a causa del fatto che, per definizione, questi vincoli non possono essere ridotti a problemi da risolvere con la semplice applicazione della scienza, non è possibile affrontarli con l’algoritmo di ingegneria.
In passato, inoltre, l’impatto del lavoro degli ingegneri era in genere a livello locale : il ponte, la centrale elettrica, il motore a vapore o il biplano potevano essere progettati tenendo eventualmente conto della sola sensibilità di coloro che vivevano nell’ambiente immediatamente circostante. Se vi erano effetti collaterali negativi (un ponte che rovinava un panorama, un aeroporto rumoroso vicino a un’area residenziale, le emissioni di una fabbrica che inquinavano un fiume, il fumo che distruggeva la vegetazione a valle), gli eventuali danneggiati si trovavano all’interno di un’area limitata. Potevano essere tranquillizzati, risarciti, o accontentati su base strettamente locale. Oggi, per contro, i sistemi tecnologici e per conseguenza il lavoro stesso degli ingegneri hanno in misura sempre maggiore effetti a livello globale. I giapponesi temono un’altra Chernobyl in Russia o in Ucraina, sia per il fallout radioattivo sul Giappone che per il fallout politico che farebbe seguito a un altro importante incidente nucleare in Russia, e che potrebbe mettere a rischio i piani nucleari del Giappone, creando allarme nell’opinione pubblica giapponese, già molto sensibile al problema. La combustione del carbone nelle centrali elettriche della Ruhr distrugge gli alberi e inquina i laghi in Boemia. La distruzione della foresta pluviale amazzonica potrebbe ridurre la capacità della Terra ad assorbire i gas che provocano l’effetto serra. La scelta della Cina di utilizzare centrali elettriche a carbone nella prossima generazione potrebbe aumentare il riscaldamento atmosferico globale. I test delle armi nucleari nel Pacifico meridionale e in Siberia hanno aumentato i livelli di stronzio 90 e iodio radioattivo nel latte in tutti i Paesi del mondo.
Ho tratteggiato un quadro a forti contrasti per paragonare l’ingegnere di un tempo e quello attuale, e questo perché desidero rendere evidente un semplice fatto. Vi è stato cioè nel lavoro degli ingegneri un passaggio dalla semplicità alla complessità, dal lavoro come solista a quello in team, da dispositivi semplici a sistemi complessi, dall’ignorare aspetti conflittuali (o affrontarli con regole empiriche) a doverli confrontare direttamente fra loro, dal lasciare che qualcun altro affronti i problemi esterni a vederseli piombare senza scampo al centro della propria attività lavorativa. In misura sempre maggiore Marconi ed Edison sono stati sostituiti dai grandi e anonimi team di progettisti alla Microsoft, ognuno dei quali sviluppa una parte soltanto della successiva versione di Windows. L’aspetto più importante di queste trasformazioni è che esse colpiscono il cuore stesso dell’algoritmo ingegneristico. Questo algoritmo, che è ancora utile per molti compiti, che si trova ancora nel cuore intellettuale del curriculum degli ingegneri, e tuttavia chiaramente irrilevante per queste nuove realtà del lavoro degli ingegneri. Tale fatto costituisce il nucleo intellettuale dell’attuale crisi dell’ingegneria.
Risposte e possibili soluzioni
Esprimendomi in termini quasi marxisti ho affermato che esiste ora una contraddizione fra la base e la sovrastruttura ingegneristica. La base è costituita dalla effettive condizioni in cui si svolge il lavoro e la vita produttiva della gran parte degli ingegneri contemporanei - dei vostri studenti del Politecnico e dei miei al MIT. La sovrastruttura è la formazione intellettuale che essi portano nel loro lavoro, una formazione che ha le proprie radici nella pratica professionale della fine del 19° secolo e dell’inizio del 20°, ma che non è più adeguata alle realtà dei compiti attualmente svolti dagli ingegneri nelle società industriali avanzate.
Dobbiamo porci due domande su questa contraddizione. In primo luogo, in quale modo gli ingegneri che insegnano agli ingegneri - i docenti delle scuole di ingegneria - reagiscono al problema ?
In secondo luogo, esistono soluzioni che possano consentire di affrontare in modo adeguato le nuove realtà nella pratica dell’ingegneria nelle moderne società industriali o post-industriali ?
Partiamo dalla prima domanda : quali sono le risposte dei docenti di ingegneria alla crisi odierna. Al MIT, queste risposte si possono suddividere, semplificando, in tre categorie. La prima si richiama al "buon tempo andato", la seconda afferma "portiamo avanti il lavoro quotidiano", e la terza fa riferimento alle "politiche".
La reazione che si rifà al buon tempo andato è precisamente questo : una reazione contro quanto viene visto come un cambiamento negativo in atto nel mondo, che potrebbe minacciare l’integrità dell’ingegneria e l’eccellenza delle scuole di ingegneria. Al MIT i docenti della facoltà si preoccupano dell’erosione degli standard, criticano l’importanza di quanto viene fatto al di fuori delle scienze e dell’ingegneria e affermano che, per evitare che il MIT finisca col diventare un "Harvard di secondo livello", occorre che si rinnovi e si confermi il suo impegno verso la scienza e la tecnologia, lasciando che, se mai ciò dovesse risultare opportuno, gli studenti del MIT si occupino di "valori", "scienze umane" e "società" in uno stadio successivo della loro vita. Questi docenti e studenti sono politicamente situati su posizioni conservatrici o tecnocratiche, e concordano anche nel criticare i "giornalisti che vogliono a tutti costi dare notizie sensazionali" e gli "ambientalisti che perseguono i propri interessi personali" accusandoli di essere proprio loro a "far apparire la Tecnologia sotto una luce negativa".
La seconda risposta che troviamo al MIT, e che è di gran lunga la più diffusa, è "portiamo avanti il lavoro quotidiano". Sia per i docenti che per gli studenti il MIT è un istituto che esige un duro lavoro. Ci si aspetta che i docenti di ingegneria svolgano ricerche originali, che insegnino ai diplomati e ai laureati, che dirigano i laboratori, e spesso che si procurino una parte del loro stipendio attraverso contratti di ricerca con il governo o l’industria. Oltre a questo, si tratta di persone che comunque hanno una propria vita, mogli, figli ed hobby, operano anche come consulenti per l’industria e il governo, e devono pur avere qualche ora di riposo la notte. La conseguenza di tutto questo è che si interviene solo per le crisi accademiche più urgenti. Il curriculum del MIT è ormai un fatto stabilito, e sono pochi i membri della facoltà che dedicano molto tempo ai comitati che discutono la riforma del curriculum. Pochi docenti hanno il tempo o l’energia (ammesso che poi abbiano anche l’interesse) per preoccuparsi del modello della formazione ingegneristica. La maggior parte di essi ritiene che la "crisi nella formazione ingegneristica" sia in realtà qualcosa che (eventualmente) preoccupa amministratori e ricercatori di età più avanzata.
La terza reazione implica una consapevolezza del fatto che c’è comunque qualcosa che non va nella formazione degli ingegneri. Tuttavia la natura precisa di questo qualcosa viene interpretata in modo diverso da persona a persona. Alcuni, specialmente gli amministratori, affermano che troppo raramente laureati di altissimo livello provenienti da un’istituzione come il MIT raggiungono la posizione di amministratori o presidenti di imprese industriali o leader in ambienti governativi, e troppo spesso finiscono coll’occupare posizioni subordinate lavorando come dipendenti dei laureati della facoltà di legge di Yale e della Harvard Business School. Con qualche ragione essi osservano che i laureati di queste università , rispetto agli studenti del MIT, sono maggiormente addestrati a far fronte alle complessità del "resto del mondo", e chiedono vengano introdotte riforme che in qualche modo possano aiutare gli studenti del MIT a muoversi meglio nel "mondo reale".
Spesso, in settori come l’ingegneria civile, dove da tempo ci si è resi conto che gestire i "vincoli" sociali fa ormai parte del lavoro degli ingegneri, si è parlato di concentrarsi sulle "politiche" come antidoto a una formazione ingegneristica eccessivamente ristretta. Tuttavia talvolta coloro che si riferiscono alle "politiche" tendono a definire queste ultime come un ampliamento dell’algoritmo ingegneristico al campo socioeconomico : propongono ad esempio che si acquisiscano strumenti e principi che possano consentire la "soluzione di problemi socio-tecnici" come la produttività, l’energia, il cambiamento atmosferico globale o la decadenza delle infrastrutture. L’addestramento alle politiche viene quindi considerato una specie di formazione tecnocratica in campi quali la ricerca operativa, l’analisi costi-benefici, la gestione dei rischi, le simulazioni al computer o la scienza manageriale.
"Allargare" il piano di studi
Nonostante la varietà di risposte, quasi tutti coloro che si occupano di formazione ingegneristica ammettono, almeno in linea di principio, che sarebbe auspicabile che gli studenti di ingegneria potessero avere un’ampia conoscenza del mondo extra-scientifico - precisamente il tipo di conoscenza che viene insegnato dagli umanisti e dagli specialisti in scienze sociali. Tuttavia, prima di limitarci semplicemente a propugnare di aggiungere anche queste materie al curriculum, dobbiamo confrontarci con quello che rappresenta un fatto indiscusso nell’attuale formazione ingegneristica, e cioè l’esplosione della conoscenza scientifica e il problema di come sia possibile insegnare agli studenti, nel giro di pochi e brevi anni, tutto ciò di cui essi hanno bisogno per raggiungere i limiti delle attuali conoscenze dell’ingegneria - e per rimanere aggiornati.
Un esempio del MIT stesso può illustrare questo problema. Parecchi anni or sono fu lanciata un’importante iniziativa tendente ad ampliare la comprensione da parte degli studenti di quelli che venivano definiti i "contesti" dell’ingegneria e della prassi scientifica : furono organizzati nuovi corsi facoltativi sulla storia e sulla sociologia dell’ingegneria e della scienza, sul rapporto fra sviluppo tecnologico e sviluppo industriale, e così via. Furono formati all’interno dell’università comitati al fine di riesaminare il piano di studi prescritto al MIT. Tuttavia i corsi sul "contesto" non erano obbligatori e, in conclusione, pochissimi studenti trovarono il tempo di frequentarli. Infine, il comitato che seguiva le ricerche sul piano di studi fece una raccomandazione - non per chiedere che fossero introdotti corsi sul "contesto" - ma per far presente che tutti gli studenti avrebbero dovuto seguire un corso di specializzazione in biologia molecolare !
Questi fatti sono probabilmente ben noti a chiunque si occupi di formazione ingegneristica. Risultano evidenti se si considera che il più importante cambiamento ora in atto al MIT è costituito dall’introduzione graduale di una laurea di livello superiore, che richiederà cinque anni, definita Master di Ingegneria e che, a quanto pare, sarà scelta dalla maggior parte degli studenti più dotati. Questa laurea non è un dottorato di ricerca, ma consentirà ai dipartimenti di poter avere un anno supplementare per presentare agli studenti concetti e metodi avanzati in campi come l’ingegneria elettrica, l’ingegneria chimica e la scienza informatica. E’ quindi evidente che le pressioni più intense nel campo della formazione (o almeno le pressioni a cui reagisce il mio istituto di ingegneria) sono quelle che spingono a restare su posizioni avanzate prolungando lo studio delle componenti tradizionali degli studi di ingegneria.
Tuttavia questa risposta, per quanto comprensibile, non risolve la crisi dell’algoritmo ingegneristico che io ho cercato di spiegare. Si ha, al contrario, l’impressione che essa entri in conflitto con qualsiasi volontà di "ampliare" la formazione ingegneristica in modo da consentire agli studenti di meglio affrontare le nuove realtà dell’ingegneria nei suoi aspetti professionali e pratici. Quale soluzione potrebbe essere proposta ?
Una soluzione ideale è quella che viene definita al MIT "doppia alfabetizzazione". Il concetto si basa sulla distinzione fra le due culture proposta da C.P. Snow, e afferma che vi sono due sistemi di pensiero che caratterizzano le due principali culture intellettuali del nostro tempo. Il primo è quello che ho descritto parlando dell’algoritmo ingegneristico, il secondo è il metodo di pensiero contestuale, approssimativo, non riduttivo e integrativo in campi quali la filosofia, la letteratura, la storia, le arti, e alcune scienze sociali. In questi campi, il pensiero disciplinato comporta il confronto con l’ambiguità e il riconoscimento del fatto che la verità cambia a seconda della prospettiva. Ciò facilita lo sviluppo della capacità rigorosa di affrontare intellettualmente quanto lo storico della tecnologia Thomas Hughes definisce la "confusa complessità" del mondo odierno.
Vi è un aneddoto scherzoso che circola al MIT e che illustra il problema della doppia alfabetizzazione. Si dice che a metà strada fra Harvard e il MIT vi fosse un grande supermercato. In questo supermercato vi era una cassa con un cartello dove, a grandi lettere, stava scritto "Cassa rapida ! Solo per i clienti che non hanno più di sei articoli nel carrello !" Uno studente universitario andò verso questa cassa con un carrello stracolmo di articoli di drogheria. Mentre si stava avvicinando, la cassiera gli chiese "Tu sei del MIT e non sai leggere, o sei di Harvard e non sai contare ?". Espressa in questi termini concisi, la doppia alfabetizzazione è la capacità sia di contare sia di leggere.
Tuttavia, molti anni di docenza in una scuola di ingegneria mi hanno realmente fatto capire a fondo quanto sia difficile raggiungere questo obiettivo. Il semplice compito di imparare a calcolare è estremamente impegnativo, specialmente oggi quando l’ingegneria basata sulla scienza ha fatto tali progressi nei misteri del mondo naturale. Vi sono, naturalmente, pochi studenti eccezionali per i quali è possibile raggiungere la doppia alfabetizzazione nei quattro o cinque anni della formazione universitaria. Non possiamo però costruire un intero programma educativo basato sulla speranza di trasformare tutti i nostri studenti in persone che sono, per così dire, una rarità genetica.
Come ho fatto rilevare, finora sono falliti tutti i tentativi per introdurre un maggior "respiro" - cioè un maggior numero di corsi che si occupino rigorosamente della confusa complessità del mondo reale - nel piano di studi di quattro o cinque anni degli studenti del MIT, e anzi questi tentativi hanno portato a una paradossale intensificazione degli aspetti tecnici del piano di studi. Certamente, tutti gli studenti al MIT devono seguire almeno un corso annuale in materie umanistiche e scienze sociali. Tuttavia, nel nuovo piano di studi quinquennale, queste discipline occupano una proporzione minore di quanto avvenisse nel curriculum di quattro anni. Avendo io stesso fatto per due decenni tutto quanto possibile per ampliare il "respiro" nel piano di studi del MIT, devo mio malgrado concludere che questi tentativi cozzano con le più forti pressioni nella formazione ingegneristica americana, e cioè la richiesta di dedicare più tempo alle materie tecniche.
Che cosa si può fare ?
Se la mia analisi della contraddizione fra la vita reale degli ingegneri di oggi e di domani e l’algoritmo ingegneristico è esatta, dobbiamo riflettere su come sia possibile far fronte a questa lacuna nell’educazione degli ingegneri.
Io prevedo e spero che in futuro, nelle scuole come il MIT, e forse anche in altre, si arriverà a formare essenzialmente tre diverse figure di ingegneri.
La prima sarà costituita dagli ingegneri come quelli attuali, il cui lavoro rimane comunque all’interno del paradigma classico - i solutori di problemi tecnici, che dedicano la loro vita professionale all’applicazione dell’algoritmo ingegneristico per cui sono stati preparati dalla formazione tradizionale. Naturalmente queste persone difficilmente diventeranno presidenti o amministratori delegati nelle loro aziende. Costituiranno una intellighenzia tecnica, che svolge il lavoro che le viene assegnato da altri in imprese pubbliche e private. Dobbiamo però ricordare che saranno proprio loro a sviluppare la prossima generazione di chip integrati, i programmi di computer innovativi, i reattori nucleari a prova di incidente, i farmaci che potrebbero risolvere le odierne malattie incurabili, e gli impianti di ingegneria genetica che potrebbero rivoluzionare - per la seconda volta - la produzione di alimenti. L’ex presidente del MIT aveva ragione ad affermare che la risposta - o almeno una delle risposte - alle tecnologie scadenti erano le tecnologie valide. Abbiamo bisogno del lavoro di ingegneri dotati, formati alla ricerca di punta nei propri campi, dovremmo lodare e apprezzare le loro invenzioni creative e curare al massimo la loro formazione.
Penso che vi sarà poi anche un secondo tipo, che ho definito l’ingegnere di doppia alfabetizzazione. Si tratta di studenti che possiedono, generalmente già al momento in cui arrivano nei nostri istituti, una straordinaria competenza per le due aree che la cassiera aveva definito "leggere e contare". Hanno per Dante, Goethe e Shakespeare lo stesso talento che dimostrano per le equazioni differenziali e la termodinamica. Molti fra loro, almeno al MIT, operano poi in campi diversi dall’ingegneria : medicina, studi legali, amministrazione pubblica e leadership aziendale. Dovremmo cercare di offrire a questi studenti una scuola di ingegneria che consenta una sufficiente conoscenza delle scienze umane, in modo tale che non si atrofizzino i loro talenti in quest’area, e che essi possano apprendere che la ricerca rigorosa e l’eccellenza intellettuale sono possibili e necessarie sia nelle scienze umane sia nell’ingegneria.
Infine credo e spero che vedremo in misura crescente un nuovo tipo di ingegnere che, spesso dopo alcuni anni di lavoro nel "mondo reale", si rende conto che l’algoritmo ingegneristico non è sufficiente per la sua vita professionale. Il professor Benson Snyder, mio collega del MIT, ha fatto una ricerca su un gruppo di ingegneri del MIT vent’anni dopo la laurea. Ha scoperto che molti fra loro che, come neolaureati agivano solo entro i limiti dell’algoritmo ingegneristico, avevano successivamente scoperto di aver bisogno di ciò che essi definivano "un altro sistema di pensiero" per lavorare in modo efficace nel mondo reale. La formazione ingegneristica del MIT non li aveva preparati intellettualmente alle esigenze della ricerca in team, alla necessità di trovare un equilibrio tra vari compromessi, alle conseguenze globali, al dover ricondurre la situazione esterna all’interno dei problemi, all’ambiguità dei problemi stessi e delle loro soluzioni, alle politiche e alla politica nella vita aziendale, nella medicina o nel governo. Per poter far fronte in modo efficace e intelligente a una tale confusa complessità, essi avevano bisogno di un diverso quadro di riferimento concettuale. Molti fra loro erano in effetti tornati agli studi superiori per acquisire tale quadro in un contesto rigoroso. Il modo più comune di raggiungere questo obiettivo in America è quello di frequentare una business school, e alcuni avevano scelto precisamente questa via. Tuttavia lo studio del business, per quanto utile, non è forse il modo migliore per portare gli ingegneri a far fronte alla complessità, in quanto troppo spesso gli ingegneri con un’ottima formazione considerano i corsi di perfezionamento manageriale semplicemente come un ampliamento dell’algoritmo ingegneristico, attraverso l’applicazione di una serie di equazioni studiate per massimizzare i profitti, il tasso di ritorno o la quota di mercato. Ciò che ci occorre in misura ancora maggiore, ritengo, sono nuovi programmi universitari nei quali si dia valore all’eccellenza tecnologica, alla creatività, all’eleganza e alla precisione, mentre gli studenti apprendono anche a trattare in modo più sistematico e intelligente quegli aspetti della realtà che non rientrano nell’ingegneria.
A questo riguardo, devo far notare che nel mio istituto di tecnologia stiamo sviluppando ora una serie di programmi destinati precisamente a questi studenti. Uno di questi, il programma "Leader nella produzione", è stato sviluppato congiuntamente con le corporation americane per formare giovani dirigenti, prevalentemente ingegneri, specializzati nel settore di punta dei sistemi di produzione e di fabbricazione. Non si dà importanza unicamente all’engineering, ma piuttosto alla gestione della tecnologia. Un secondo programma è poi quello che si occupa della Tecnologia e delle Politiche, e che intende rivolgersi prevalentemente a giovani ingegneri con diversi anni di esperienza lavorativa, che tornano per seguire un corso universitario che fornisce loro gli strumenti per analizzare le politiche tecnologiche. Alcuni di loro poi continuano a portare avanti la ricerca in questo campo ; altri tornano alla vita aziendale come esperti di tecnologia o di problemi ambientali ; altri ancora vanno a lavorare per enti pubblici. Vi è anche un nuovo programma che viene ora sviluppato all’interno dei sistemi socio tecnici complessi, e che si concentra sulle relazioni, comprese le relazioni storiche, quelle interpersonali, fra le organizzazioni e fra le diverse tecnologie dell’industria moderna. Questi programmi sono destinati a persone che, dopo essersi laureate al MIT, hanno scoperto la necessità di quello che Benson Snyder definiva "un altro sistema di pensiero" : tutto questo ha il fine di fornire agli ingegneri gli strumenti per farli riflettere al di là del paradigma ingegneristico, perché possano affrontare in modo efficace la confusa complessità del mondo in cui dovranno lavorare.
Naturalmente non ha senso per uno straniero, che non conosce a fondo la formazione ingegneristica italiana, suggerire proposte a voi che siete nelle posizioni di punta della formazione ingegneristica a Torino. In conclusione può tuttavia essere utile prendere in considerazione due aspetti specifici. In primo luogo, sembra importante che gli studenti di ingegneria possano rendersi conto, fin dall’inizio della loro formazione, del fatto che vi sono in effetti altri sistemi di pensiero rigorosi oltre all’algoritmo ingegneristico, e che essi possano apprendere quanto più precocemente possibile che anche la scienza e l’ingegneria sono il prodotto di complesse vicende storiche, umane, culturali, politiche e sociali. E’ ad esempio utile chiedere agli studenti di approfondire la storia della scienza e della tecnologia, di acquisire alcune nozioni sulle politiche inerenti al loro futuro lavoro, su come queste finiranno con l’intrecciarsi con il resto della società. In altre parole, è importante che vi sia la possibilità sistematica, e forse l’obbligo, anche durante i primi anni degli studi di ingegneria, di venire a contatto con quelle che i francesi definiscono "les sciences humaines".
In secondo luogo, penso che diventerà sempre più importante fornire ai giovani ingegneri, dopo alcuni anni di esperienza sul campo, la possibilità di tornare agli istituti di ingegneria per ampliare la loro formazione. Una parte di tale formazione potrebbe essere tecnica ; li aiuterà a restare aggiornati sulle ultime frontiere della conoscenza in campi che si evolvono tumultuosamente ogni decennio. Per un altro verso sarà tuttavia importante dar loro la possibilità di far fronte alle ambiguità e complessità dei sistemi socio-tecnici al cui interno essi operano e di cui potrebbero un giorno diventare i leader. Non dovremmo noi in America affidare tale compito solo alle scuole di amministrazione e gestione, perché queste troppo spesso trascurano gli stessi valori positivi di eccellenza tecnologica e di competenza che formano il nucleo essenziale degli istituti di ingegneria. E ancor più, in posti come il MIT, abbiamo bisogno di programmi post laurea nei quali una comprensione rigorosa della confusa complessità del mondo socio-tecnologico si accompagni a un costante rispetto per l’eleganza, la precisione e la creatività nella tecnologia.
Posso quindi riassumere in poche frasi la mia conclusione. Un secolo fa il mondo fece una straordinaria scoperta : i problemi pratici potevano essere risolti attraverso l’applicazione sistematica della scienza. Ho dato a questa scoperta il nome di "algoritmo ingegneristico", e ho sostenuto che la moderna formazione degli ingegneri si basa su questo algoritmo. Questa scoperta ha trasformato il mondo al di là di ogni possibilità di immaginazione di coloro che vivevano nel secolo scorso. All’inizio, la formazione degli ingegneri che si sviluppò partendo da questo algoritmo corrispondeva adeguatamente alle effettive condizioni di lavoro del tipico ingegnere - la sovrastruttura era armonicamente adatta alla base. Oggi, tuttavia, si è aperta una contraddizione fra l’algoritmo e le realtà della vita produttiva degli ingegneri che noi formiamo. Questo algoritmo, immensamente produttivo e creativo, e che non deve certo essere abbandonato, è tuttavia entrato in crisi : non può e non potrà preparare gli ingegneri per l’ambiente reale in cui la maggior parte di loro lavorerà. Il problema fondamentale per la formazione degli ingegneri è quindi quello di studiare metodi per preparare i laureati ad affrontare in modo più adeguato un mondo al tempo stesso complesso e confuso, senza tuttavia perdere i vantaggi derivanti da quello che è un brillante e utile strumento per la soluzione dei problemi, l’algoritmo. Non si tratta di un compito facile, e noi del MIT ci uniamo a voi del Politecnico nella ricerca di possibili risposte.
Grazie.
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